domenica 17 ottobre 2010

Prova d'orchestra

Giorni di pigrizia, di accidia, di distrazione.
Mi sveglio. Colazione, doccia, un'occhiata al computer. Poi c'è da fare in casa, poi incombenze burocratiche, poi c'è il pranzo, poi un salto a far spesa, poi una telefonata ad un'amica, poi un giro in centro, poi, poi, poi...


Ogni scusa è buona per non studiare. Dico, MI dico, "Marina c'è quel pianoforte che ti aspetta, quello spartito nuovo neanche aperto". E però c'è sempre un'altra cosa da fare, più importante, più urgente.
La musica mi respinge ed io respingo lei e non trovo neanche una ragione.
Forse perché è diventata solo un lavoro come un altro e non più una passione?
Fatte le prove, fatte le recite, si torna a casa e tutto finisce lì, fino al prossimo lavoro e allora via di corsa a ripassare a imparare se è una cosa nuova.
Continuo a ripetermi: "così non va bene, che c'è che non va? Questo è il tuo lavoro. Lo devi fare". Eppure...



Un pomeriggio di una qualunque pigra domenica di ottobre.
Un invito dell'ultimo minuto: "vado a fare una prova, vuoi venire con me a sentire?"
Vado.
Fuori c'è il sole, sarebbe l'occasione per una bella passeggiata in campagna o in un giardino.
Mi domando perché non scappare all'aperto a godermi il sole. D'altro canto non sono io a dover fare le prove.
Ma c'è qualcosa che trattiene, che mi attira dentro quelle mura, tra quei corridoi polverosi, quei leggii traballanti, le luci al neon, le panche di legno.
Solo una decina di musicisti stanno accordando, il Maestro in Tshirt da domenica pomeriggio, la clavicembalista su un organo elettrico con la prolunga portata da casa, ché il filo era troppo corto.
Potrebbero essere con le famiglie, a passeggio, a vedere un film, a fare una gita, a riposarsi. D'altronde è domenica.
Invece sono qui.



Poi iniziano a suonare e Gemma inizia a cantare.
Un'ondata di emozione mi sale da dentro, gli occhi mi si riempiono di lacrime, mi abbandono alla musica.
Si fermano, discutono di pause, della lunghezza di quella nota - "dove facciamo cadere l'accordo nel recitativo?"
Sono tutti immersi, concentrati, rapiti dal loro lavoro. Lavoro? No dalla loro passione.



Ho voglia di andare a casa, ho voglia di studiare anch'io, ho voglia di decidere quanto far durare quella pausa, ho voglia di cantare, ho voglia di condividere con gli altri questa emozione che si rinnova ogni volta e che mi porta a piangere ad un accordo che smuove le corde della mia anima.



Ho di nuovo, e sempre, voglia di MUSICA.



mercoledì 6 ottobre 2010

Palermo



Sono giorni, anzi settimane che voglio scrivere di Palermo.
Ma la mia mano non riesce a scrivere tutto quello che c’è nella mia mente, o forse la mia mente non riesce a comprenderla tutta in poche parole.
Da dove cominciare?

Non riesco a togliermi dalla mente l’immagine di una nobildonna di altri tempi, agghindata, ingioiellata, incipriata, che nasconde sotto i suoi vecchi abiti sontuosi, sotto i gioielli preziosi che la abbelliscono, sotto la cipria che la imbianca, il disfacimento del corpo, le rughe del volto, le crepe dell’anima, il peso dei compromessi, il dolore delle violenze, la sporcizia delle miserie.
Come quei poveri corpi mummificati che se ne stanno appesi ai muri della cripta dei Cappuccini. Loro, i morti, nei loro migliori vestiti, quelli della festa, non immaginavano forse di essersi così agghindati per essere esposti e guardati con curiosità morbosa da turisti sciatti, in bermuda e ciabatte.

Palermo è colori e luce e ombre e buio, è profumi e puzze, è letteratura e poesia e ignoranza e disprezzo, è musica e rumore di macchine, è fiori e palme e giardini e cemento e asfalto, è spettacolo e immondizia, è palazzi meravigliosi e rovine di bombardamenti di 60 anni fa, è voglia di rinascita e disillusione, è città di mare che volge le spalle al mare, si rivolge alla montagna e ne è respinta in basso.

Palermo per me è kaos.
E’ il movimento immutabile della storia. E' la vita e il suo tendere in ogni momento alla calma, cioè alla morte, ma, come la storia, senza mai arrivarci.



Vorrei scrivere quello che canta Giovanni da Procida nei Vespri siciliani:



"O tu, Palermo, terra adorata,
a me sì caro riso d’amor,
alza la fronte tanto oltraggiata,
il tuo ripiglia primier splendor!
Chiesi aita a straniere nazioni,
ramingai per castella e città.
Ma, insensibil al fervido sprone,
dicea ciascun:
Siciliani, ov’è il prisco valor?
Su, sorgete a vittoria, all’onor!
"


Ma non riesco a dimenticare le riflessioni di Don Fabrizio, Principe di Salina: